Un’epopea. Già dal titolo che esclama potentemente un aggettivo dal significato profondo, “Libere! L’epopea delle radio italiane degli anni 70” di Stefano Dark, uscito per Stampa Alternativa, si racchiude l’alfa e l’omega di un’importante momento della radiofonia italiana. Tra i libri sulle radio meno convenzionali, questo è sicuramente un testo che si potrebbe dire bipartisan, perché dal gomitolo aggrovigliato della retromania nostalgica per “il tempo che fu” estrae correttamente i fili colorati delle voci, testimonianze che ne ricostruiscono fondamenta e struttura fino all’esplosione dell’FM e all’avvio di determinati modelli radiofonici in cui muoversi. E se la parola “etere” a molti evoca solo i miasmi da ospedale, negli anni 70 era la prateria sconfinata su cui galoppavano entusiasti i pirati della modulazione di frequenza, su onde medie o corte che fossero. Un’antenna sul tetto di casa, magari in collina, microfoni e amplificatori di fortuna, qualche mixer rimediato da studi di registrazione o da locali che se ne disfacevano, e lo smanettone di turno (un perito tecnico della scuola, un elettricista, andava bene tutto) che sapeva come collegare gli strumenti. Il resto lo facevano le voci e i dischi portati da casa, senza far caso ad argomenti o orari: di tempi radiofonici non si parlava davvero. Potevano essere trasmessi infiniti dibattiti, album per intero, litigate, lezioni, in orari assolutamente ondivaghi come l’ispirazione del momento. E l’emozione di ascoltare gli amici, magari a una manciata di chilometri dal paese, era indescrivibile.
GLI ANNI 70 ERANO LA PRATERIA SCONFINATA SU CUI GALOPPAVANO
ENTUSIASTI I PIRATI DELLA MODULAZIONE DI FREQUENZA.
Ma questo è comunque il lato nostalgico, poetico, della reale sfida al monopolio di Stato della Rai. All’atto pratico, in Italia le radio libere sono arrivate molto più tardi rispetto all’Inghilterra, dove si collocano principalmente a metà anni Sessanta, o alla Francia e al Lussemburgo. I primi atti di ribellione sono degli anni 70, ai due capi opposti della penisola: a Trento con Radio GAP, aperta da militanti di Lotta Continua, che riesce a interferire con i GR della Rai in un paio di occasioni; in Sicilia, a Partitico nella valle del Belice martoriata dal terremoto del 1968, con Radio Libera, inventata dal sociologo Danilo Dolci con Franco Alasia e Pino Lombardo per dar voce ai poveri cristi dimenticati dallo Stato. La radio è uno strumento di lotta politica: la radio è politica e sfida il potere costituito, centrale. Sono radio ribelli, di contenuti utili, di servizio e di urgenza, le prime espressioni della libertà di parola sulle frequenze radiofoniche. In un agrodolce parallelismo, sarà il terremoto dell’Irpinia del 1980 a decretare la fine delle radio libere così come erano nate, ormai codificate e diluite, più commerciali per sopravvivere, irrimediabilmente diverse.
Nella seconda metà degli anni Settanta si afferma un’epopea solo italiana: quella delle radio libere, private, locali, che da ogni angolo del Paese trasmettono di tutto. Parole e personaggi in libertà rivoluzionano la comunicazione per mettere in onda evasione, servizio e contro informazione..
Ma negli anni 70 il fermento era davvero notevole: è Radio Bologna, installata in un roulotte bianca sul colle dell’Osservanza, a inaugurare ufficialmente un’idea di palinsesto che dà voce all’interesse generale pubblico, locale. Radio Parma, Radio Libera Livorno, Radio Biella, Radio Ancona, Radio Bari: a macchia di leopardo, ogni città si dota pioneristicamente della propria voce libera. A Milano ci si organizza su più fronti e quartieri, a Roma basta un terrazzo condominiale per piazzare l’antenna e iniziare a trasmettere. Le radio libere degli anni 70 sfondano i confini della RAI e conquistano bacini di ascoltatori affamati di qualcosa di diverso, plurale e pluralista, spesso scomodo e fastidioso, ma reale. E sincero, fatto dal basso. Non filtrato (o giusto parzialmente) come le telefonate con gli ascoltatori, il filo diretto con ciò che accade minuto per minuto attorno a loro.
In “Libere!” di Stefano Dark,
tutte queste storie si dipanano sulla frequenza dell’approfondimento, ma niente passatismo. “Si stava meglio allora” non si dice mai: al massimo si imbevono i ricordi di quel minimo di nostalgia che ammorbidisce la cadenza storiografica e cronologica, inframmezzata dai numerosi interventi di personalità che hanno letteralmente costruito e strutturato la radiofonia privata. Chi iniziando come curiosi disc jockey su ispirazione americana/britannica, chi imitando i professionisti che animavano le radio di confine come Radio Monte Carlo o Radio Capodistria, chi giocando in casa -letteralmente- da dilettante con parlantina sciolta che scopre un talento fino ad allora inesplorato. Ma soprattutto, le radio libere degli anni 70 sono accomunate da una gigantesca sete di musica diversa da quella che passa in RAI: le canzoni e i gruppi che non riescono a superare le maglie della censura, o il rigoroso controllo dei programmatori di Via Asiago, trovano una casa comoda nelle piccole piratesse locali. Il rock, il punk, il progressive, persino il liscio, hanno i loro estimatori, e questi vogliono assolutamente ascoltare i loro generi preferiti. Bastano i vinili di casa, da consumare ad ogni solco, per soddisfare questa esigenza. Lentamente si delineano quelli che Stefano Dark individua come due filoni: le radio private commerciali e le radio libere indipendenti, esponenti di due precise filosofie e politiche di aggregazione. A vincere, sulla lunga, sono state nettamente le prime. Ma le seconde, nonostante tutto, non si sono mai spente: grazie a Internet, hanno semplicemente cambiato medium.